Per Annette l’ispirazione proviene dalla natura mentre per Fabrizio sono le archeologie industriali o gli oggetti abbandonati gli elementi da cui scaturisce la scintilla creativa.
Per Annette Lucks ,sono le esperienze intime, vicende vissute in prima persona, memorie familiari tramandate a voce – una sorta di oral history –, intrecciate a una profonda affinità con la letteratura, la musica e la filosofia, il punto di partenza. È da questa molteplicità di fattori che nasce il cosmo pittorico di Annette Lucks, la quale attinge al proprio “archivio interiore” in modo associativo, selezionando e ordinando temi e motivi che poi traduce in composizioni su carta o tela.
Alla base del linguaggio visivo dell’artista tedesca c’è il principio della “simultaneità nella non-simultaneità”: i soggetti, sradicati dai loro contesti originari, vengono trasposti in nuove cornici di senso. Così, recuperati dalla memoria, assumono un rinnovato significato e un’intensa presenza all’interno di scenari pittorici complessi. Il disegno – il gesto – funge da elemento unificante, un filo tessile che si intreccia tra gli avvenimenti rappresentati e dietro di essi, anche nella dimensione grafica.
Accanto a queste trame compaiono campi compatti di colore, forme e figure ornamentali che creano equilibrio, al tempo stesso struttura e cornice delle composizioni. Per Lucks, lo spazio vuoto ha lo stesso valore della ricchezza formale: il silenzio visivo dialoga con l’opulenza, creando tensione e respiro. Lucks dimostra una forte affinità con le avanguardie della musica sperimentale e con alcune correnti dell’arte contemporanea, ma ha saputo definire una posizione del tutto personale e riconoscibile, scegliendo consapevolmente la via del vuoto come contropunto alla pienezza.
Nell’opera dell’artista, in particolare, risulta centrale il tema del giardino, inteso come metafora della psiche secondo la concezione di James Hillman. Quest’ultimo, allievo di Gustav Jung, tra i più profondi interpreti della psicologia archetipica, concepisce tale topos come uno spazio protetto, ma vivo, coltivato ma non del tutto controllabile, emblema della complessità dell’anima: un luogo dove coesistono ordine razionale e caos spontaneo, luce e ombra, bellezza e trasformazione. Non solo una cornice estetica o simbolica, ma un paesaggio dell’interiorità in cui si intrecciano memorie, desideri, immagini inconsce. Un posto dove l’io incontra il sé, in una danza continua tra volontà intenzionale e mistero della mente.
Se Annette Lucks dipinge elementi della memoria nel giardino metafisico della psiche, Fabrizio Tridenti, ridà nuova vita e nuove forme a ciò che recupera in spazi verdi “fisici” trasformandoli in gioielli d’arte, esplorando così il confine tra oggetto e concetto, tra materia e intuizione e aprendo nuove possibilità per il manufatto di gioielleria come espressione critica e poetica del nostro tempo.
Per Fabrizio Tridenti sperimentatore libero di materiali, tecniche e concetti, solcando territori inediti e innovativi e approdando a soluzioni sorprendenti e inaspettate. Il suo approccio è dinamico e stratificato: attraverso sovrapposizioni, intrecci e accostamenti di lastre, cilindri e fili metallici, costruisce e decostruisce continuamente l’opera. Il tutto avviene in un processo fluido, quasi performativo, in cui la forma si ridefinisce più volte prima di giungere all’esito finale, frutto di un equilibrio tra intuizione e rigore.
Il linguaggio estetico di Tridenti si confronta in modo diretto con la realtà dell’ambiente industriale e tecnologico contemporaneo. Attraverso l’uso di materiali poveri – spesso scarti di produzione industriale – egli plasma oggetti dal carattere monumentale e dalla forte impronta formale, nati dal caos e dalla materia residua. In aperto contrasto con i canoni tradizionali della gioielleria, Tridenti ne rifiuta le valenze funzionali, formali ed estetiche convenzionali, per spostare il suo lavoro nel campo dell’arte concettuale, ampliando così il perimetro del gioiello come forma d’indagine. Afferma Tridenti: “La mia intenzione è quella di isolare una forma interessante da questo caos. Sono più attratto dalla casualità degli eventi che dalla loro determinazione, perché nella progettazione e nello sviluppo l’elemento sorpresa si perde, mentre esiste nell’individuare e riprodurre una combinazione casuale. Quindi lo scopo è quello di perdere l’idea della forma”.