Spesso, molto spesso, hanno incontrato il male di vivere. Sono gli uomini e le donne di Francis Bacon e di Lucian Freud: ricchi borghesi, aristocratici snob (nel 2000 Freud è riuscito persino a ritrarre, sia pure non molto apprezzato dall’interessata, la regina Elisabetta), working class. A loro, ai loro corpi e ai loro volti dilatati e ferocemente esibiti (gli stessi Bacon e Freud non hanno mai avuto paura di mostrarsi «nudi e crudi»), i due maestri hanno affidato il racconto della condizione umana nella sua scomoda verità e «oltre ogni classica idea di bellezza». Nella mostra curata da Elena Crippa che si aprirà il 26 settembre a Roma, al Chiostro del Bramante, Bacon e Freud («per la prima volta insieme in una mostra in Italia ») non sono però i soli protagonisti, per quanto eccellenti. Sullo sfondo (ma da protagonista) c’è Londra: la Londra post-bellica; la Londra dove studiare, lavorare, vivere; la Londra laboratorio creativo per artisti immigrati in cerca di gloria; la Londra che accoglierà un Bacon appena quindicenne da Dublino e un Freud scappato dalla Germania per sfuggire dal nazismo. E c’è la School of London, quella Scuola di Londra (definizione coniata da un altro artista trapiantato a Londra, l’americano Ronald Brooks Kitaj in un libro del 1976, The Human Clay) di cui faranno parte, con Bacon e Freud, altri artisti in cerca di patria. Come Franz Auerbach (anche lui fuggito dalla Germania nazista), Michael Andrews (norvegese espatriato che avrà Freud come professore alla scuola d’arte), Leon Kossoff (nato a Londra da genitori ebrei russi), Paula Rego (che lascerà il Portogallo per studiare pittura nelle scuole inglesi). Sei artisti e quarantacinque tra dipinti, disegni e incisioni, tutti («straordinariamente») prestati dalla Tate di Londra (che con il Chiostro del Bramante aveva già dato vita alla mostra su Turner del 2018), tutti realizzati tra il 1945 e il 2004. Bacon/Freud. La Scuola di Londra non è così solo la celebrazione dell’arte come espressione così potente della realtà da produrre capolavori capaci ancora di sconvolgere: la donna nuda tra gli stracci di Standing by the rags e il Ragazzo che fuma di Freud; il ritratto di Isabel Rawsthorne e la Seated figure di Bacon; la vedute di Kossoff (Christ Church, Spitalfields, Morning) e Auerbach (Primrose Hill); le scene metropolitane di Andrews (A man who suddenly fell over) e quelle oniriche di Rego (The dance). Piuttosto quasi una dichiarazione postuma d’intenti non solo estetica. Che farà dire a Bacon (che per i suoi ritratti non utilizzerà mai modelli ma quadri, fotografie, stampe e altro): «Quello che voglio fare è distorcere la cosa ben oltre l’apparenza». E a Freud (che al contrario sottoporrà i suoi modelli a lunghe sedute di posa): «La mia idea di ritratto scaturisce dall’insoddisfazione per i ritratti che assomigliano alle persone: i miei ritratti devono essere ritratti di persone, non simili alle persone. Non creare qualcosa che somigli alla persona, ma incarnarla. Voglio che il dipinto sia fatto di carne». A Roma andrà dunque in scena il racconto di una condizione umana fatta di fragilità, energia, eccessi, evasioni, verità scomode e scenari che riportano a Londra: guerra, dopoguerra, immigrazione, tensioni sociali, disoccupazione, voglia di cambiamento, ruolo della donna, cultura, politica. Una «messa in scena» che continua ancora adesso ad affascinare, anche il mercato: i Three studios of Lucian Freud di Bacon del 1962 sono stati venduti nel 2013 da Christie’s a New York per oltre 106 milioni di euro; lo Studio per una testa del 1952 sempre di Bacon, uno dei suoi cinque Papi Urlanti ispirati al Ritratto di Innocenzo X di Velázquez, è stato battuto per 50,3 milioni da Sotheby’s; il ritratto di Garech Browne del 1956 di Freud (molto vicino allo Smoking boy prestato dalla Tate) per 6,7 milioni da Sotheby’s a Londra. «Sono artisti — spiega la curatrice a “la Lettura” — che si sono confrontati quotidianamente con la realtà e che hanno reinterpretato, secondo la propria sensibilità, il tempo e la storia. Perché gli uomini e le donne ritratte non sono mai semplici individui, ma fanno parte di un “corpo collettivo”, quello della società in cui vivono ». Un’idea di collettività che, di fatto, gli stessi artisti della School of London (una cinquantina secondo il primo calcolo di Kitaj, numero poi sensibilmente ridotto in pratica ai sei esposti a Roma) sembravano fin dall’inizio voler praticare tra loro: «Nonostante lavorassero chiusi dentro studi spesso minuscoli e scomodi — prosegue Crippa — erano legati da grande ammirazione reciproca e dalla fratellanza tipica dei periodi post-bellici». Nell’architettura cinquecentesca progettata da Donato Bramante troveranno così spazio opere che racconteranno individui, luoghi, frammenti di vita vissuta che mostrano la fragilità ma anche la vitalità della condizione umana. Realizzati con tecniche spesso affascinanti ed evocative: nel suo Study for a Portait del 1952 Bacon mescola, ad esempio, pittura ad olio con la sabbia per rendere tutto ancora più «ruvido» e «difficile». Sono opere in cui la vita viene presentata senza filtri. Opere che forse proprio per questo non sembrano mai passare di moda. E che continuano a scandalizzare. Come Three studies of figures on beds (1953), Two figures on the grass (1954), Two figures on a couch (1967), tre dei pezzi forti della mostra Couplings dedicata a Bacon che si appena chiusa alla Gagosian Grosvenor Hill di Londra: quadri «di coppia» che con i loro corpi assemblati senza ritegno (maschili, femminili, animali) oltrepassano ogni possibile tabù per raccontare, ancora una volta, la realtà. E per confermare, secondo i critici inglesi, Bacon come l’unico, vero erede di Picasso.